infarto cerebrale


    Aggiornato il 14 Dicembre 2015

    (o rammollimento cerebrale), necrosi di un territorio cerebrale, conseguente all’occlusione dell’arteria responsabile della sua irrorazione, solitamente per trombosi – embolia, che provoca una interruzione nell’afflusso di sangue arterioso di durata superiore a 3 minuti.

     

    Quadro clinico

    Perché l’infarto cerebrale si realizzi devono coesistere altri fattori, e in particolare: un cattivo funzionamento delle anastomosi fra le arterie cerebrali; variazioni della pressione arteriosa, legate soprattutto a cause cardiache non compensate da un’efficiente autoregolazione vasale; disturbi della coagulazione. Quasi sempre la trombosi-embolia dipende dall’aterosclerosi dei vasi cerebrali, più raramente da arteriti infettive o da embolie di origine cardiaca. Altri fattori di rischio, oltre all’aterosclerosi, sono costituiti da: ipertensione arteriosa, diabete mellito, ipercolesterolemie e iperlipemie familiari, trattamento estro-progestinico prolungato, fumo di sigaretta. Nella maggior parte dei casi la topografia dell’infarto cerebrale ricalca quella del territorio dipendente dall’arteria interessata, ma spesso ne risparmia una parte grazie a un sistema di vasi che si anastomizzano permettendo una sorta di compenso. I territori più fragili sono la corteccia, i nuclei grigi della base e, in genere, le zone che si trovano nei segmenti distali dell’albero arterioso e i territori vascolari di frontiera tra due sistemi arteriosi. Nei due terzi dei casi l’occlusione è arteriosa, essenzialmente per trombosi o embolia (raramente da emboli grassi o gassosi). Esistono poi (un terzo dei casi) infarti cerebrali senza evidente ostruzione vasale (in realtà molto spesso si tratta di microemboli, che poi si frammentano più o meno rapidamente). Le necrosi cerebrali corrispondono propriamente agli accidenti ischemici permanenti, o ictus ischemici (in contrapposizione agli ictus emorragici), che si manifestano con sintomi neurologici che durano oltre 72 ore e lasciano esiti variabili (da deficit parziali e reversibili a deficit totali e definitivi, con numerose sfumature di gravità). Ricordiamo qui che esistono anche gli accidenti ischemici transitori (TIA e RIND). I quadri clinici dell’infarto cerebrale differiscono tra loro a seconda del territorio cerebrale interessato dall’ischemia (di pertinenza carotidea o vertebrale: telencefalo, diencefalo o tronco encefalico), dalla causa che l’ha provocata e dell’efficienza dei meccanismi di compenso. La mortalità non è molto elevata, ma i postumi invalidanti sono molto frequenti (paralisi motorie, in particolare emiplegie, e afasie).

     

    Terapia

    Per quanto riguarda la terapia dell’infarto cerebrale, tutto dipende dalla gravità del quadro che si è determinato. Se c’è pericolo per la vita, è necessaria una terapia rianimativa generale, che consiste nell’assicurare un apporto di liquidi e un apporto elettrolitico e calorico sufficienti, nel controllo della respirazione, della pressione arteriosa e della funzione cardiaca, nella terapia antibiotica «di copertura» per evitare complicazioni infettive e nella cateterizzazione a permanenza, a causa dei disturbi sfinterici. La presenza o la mancanza di un edema cerebrale condiziona fortemente la prognosi nei primi giorni: è opportuno, dunque, un trattamento antiedemigeno con ACTH , mannitolo o glicerolo in infusione per alcuni giorni. Può risultare utile anche la somministrazione di cortisonici. Una volta che il paziente sia fuori pericolo, la terapia deve proporsi due scopi: dargli le migliori possibilità di recupero funzionale ed evitare, per quanto possibile, le recidive. Non molte sono le risorse di provata efficacia: a) dal punto di vista farmacologico, si accetta l’opportunità della somministrazione di antiaggreganti piastrinici (acido acetilsalicilico a basse dosi quotidiane) a lungo termine e la correzione degli squilibri metabolici eventualmente presenti (ipertensione arteriosa, diabete mellito, dislipidemie ecc.); b) è necessaria un’accurata cura infermieristica, in caso di invalidità permanente, volta in primo luogo alla prevenzione delle piaghe da decubito; c) infine, è fondamentale cominciare precocemente la riabilitazione del soggetto con misure fisiochinesiterapiche, logopediche e occupazionali, al fine di reinserirlo nel miglior modo possibile nella vita familiare e sociale. Una buona parte degli emiplegici sopravvissuti raggiunge un recupero sufficiente a condurre una normale vita quotidiana; alcuni possono anche riprendere un’attività produttiva.