ipertensione arteriosa


    Aggiornato il 14 Dicembre 2015

    aumento della pressione arteriosa a livelli costantemente superiori ai valori medi presenti nella popolazione.

     

    Ipertensione diastolica e ipertensione sistolica

    È difficile stabilire quali sono i valori normali della pressione arteriosa, che per di più variano da individuo a individuo e, nello stesso individuo, con l’età, l’ora del giorno (ritmo circadiano ), la stagione, lo stato nervoso. Nel complesso l’ambito dei valori considerati normali per la pressione arteriosa in un individuo adulto sano arriva fino a 90 mmHg per la minima (pressione diastolica) e i 130-140 mmHg per la massima (pressione sistolica). Nell’anziano sono considerati accettabili valori di pressione sistolica di 150-160 mmHg. L’aumento della pressione arteriosa può riguardare sia la sistolica da sola (ipertensione arteriosa sistolica isolata), sia la sistolica e la diastolica.

     

    Cause dell’ipertensione

    L’ipertensione arteriosa sistolica isolata costituisce un’entità clinica abbastanza precisa: essa è soprattutto legata a arteriosclerosi dell’arco aortico (tipicamente nell’anziano), ma può essere determinata anche da altre patologie quali: insufficienza della valvola aortica, anemia, tireotossicosi, febbre, persistente pervietà del dotto arterioso, fistole arterovenose. L’ipertensione arteriosa sistodiastolica, invece, non ha una causa specifica in circa il 95% dei casi: si parla, a questo proposito, di ipertensione arteriosa essenziale.Sulle cause dell’ipertensione arteriosa essenziale possono essere fatte solo ipotesi. Certamente hanno importanza un aumentato tono del sistema nervoso simpatico, una diminuita capacità del rene a eliminare sodio, fattori genetici e razziali (i neri vanno più soggetti a ipertensione arteriosa rispetto ai bianchi), alimentari (diete ricche di sodio in soggetti sensibili, l’alcol, la liquirizia), condizioni di stress sociale; è stato recentemente suggerito che anche l’emoglobina possa controllare i livelli di pressione arteriosa, attraverso la cessione di ossido d’azoto ad azione vasodilatante ai tessuti periferici, ma necessitano ulteriori conferme al riguardo. Per il restante 5%, invece, è possibile individuare la causa: si parla, in questi casi, di ipertensione arteriosa secondaria. In tal senso, sono spesso coinvolte le ghiandole surrenali, che a vari livelli aumentano la loro attività (è il caso del feocromocitoma, dell’iperaldosteronismo primitivo, della sindrome di Cushing), e l’ipofisi, nel cui ambito si può sviluppare un tumore secernente, che determina una sindrome chiamata acromegalia. Oltre che endocrina, la causa può essere renale, con interessamento di tutte le componenti anatomo-funzionali del rene: l’interstizio, il glomerulo e le arterie. Così malattie come la pielonefrite cronica o la glomerulonefrite possono essere responsabili di ipertensione arteriosa. Anche farmaci (soprattutto certi analgesici) o il diabete possono contribuire a danneggiare il rene e a instaurare un’ipertensione arteriosa. Il rene può essere responsabile anche di un particolare tipo di ipertensione arteriosa chiamata nefrovascolare, in cui, per modificazioni del flusso a livello dell’arteriola che porta il sangue al glomerulo, si ha la secrezione di una sostanza detta renina, innescando un meccanismo che – attraverso l’angiotensina II – porta infine alla produzione di aldosterone, ormone a elevato potere ipertensivo. Quando sono coinvolte le arterie renali, è possibile intervenire chirurgicamente per rimuovere una stenosi, o per dilatarle. In tal caso si può arrivare alla guarigione o a un notevole miglioramento dell’ipertensione arteriosa. Lo stesso vale per i casi in cui l’ipertensione arteriosa è provocata da tumori benigni delle ghiandole endocrine sopra elencate: con la rimozione del tumore si può avere la risoluzione della malattia ipertensiva. Infine, può causare ipertensione arteriosa sistodiastolica una stenosi congenita dell’aorta (coartazione aortica). In questa condizione patologica, non rarissima, il sangue non può affluire liberamente alla parte inferiore del corpo, per una stenosi dell’aorta che ha luogo subito al di sotto del suo arco: ciò provoca un’ipertensione arteriosa nelle parti superiori del corpo, con ipotensione delle parti inferiori. Anche in questo caso un intervento chirurgico può essere risolutore.

     

    Terapia

    Una volta accertata l’esistenza di una reale condizione di ipertensione arteriosa essenziale, attraverso ripetute misurazioni della pressione in condizioni il più vicine possibile a quelle ottimali (non semplici da ricreare nella pratica medica quotidiana), il primo step del trattamento antipertensivo consiste nella messa in atto di alcune misure igieniche elementari quanto fondamentali: abolizione del fumo, riduzione del consumo di caffè o sostanze eccitanti (farmaci, stupefacenti). È possibile un moderato consumo di vino, sono sconsigliati i superalcolici. Può essere di grande aiuto un’attività fisica isotonica, compiuta senza sforzi eccessivi (passeggiate, corsa, nuoto, bicicletta). I pazienti obesi devono ridurre il peso corporeo; tutti devono associare una dieta a bassissimo contenuto di sodio, evitando cibi troppo salati (più controversa appare la questione relativa all’uso di sali a basso contenuto di sodio, perché gli studi dimostrerebbero che l’apporto di sodio legato alla salazione dei cibi contribuirebbe per il 10% circa dell’introito totale di sodio con la dieta). Qualora l’osservanza di queste regole non sortisse l’effetto desiderato, si renderebbe necessario il ricorso alla terapia farmacologica. I farmaci oggi a disposizione sono davvero numerosi e ciascuno trova indicazione in situazioni particolari. In linea di massima, possiamo dire che un primo approccio terapeutico andrebbe compiuto utilizzando un solo farmaco, da sfruttare eventualmente a dosaggio pieno prima di sostituirlo con un farmaco diverso. Quando anche questi provvedimenti si rivelassero insufficienti, si potrebbero utilizzare associazioni di due farmaci a diverso meccanismo d’azione, che si potenziano vicendevolmente. Solitamente non è necessario spingersi oltre: sono meno frequenti, infatti, i casi in cui è necessario ricorrere all’associazione di tre o più sostanze diverse. Impossibile sarebbe elencare tutti i farmaci antipertensivi esistenti; le principali categorie di questi (tra parentesi sono indicate le molecole più note o capostipite) sono rappresentate da: (1) diuretici (idroclorotiazide, clortalidone, amiloride; meno indicata la furosemide); (2) inibitori adrenergici: ad azione periferica prevalente (reserpina), alfa-bloccanti centrali (doxazosin, prazosin, terazosina), alfa-agonisti centrali (alfa-metildopa, clonidina), beta-bloccanti (atenololo, metoprololo, labetalolo ecc.; meno utilizzato oggi il propranololo); (3) calcioantagonisti (nifedipina, amlodipina; meno specifica azione ipotensiva hanno verapamil e diltiazem); (4) ACE-inibitori (captopril, enalapril ecc.); (5) inibitori dei recettori dell’angiotensina II (losartan, irbesartan); (6) vasodilatatori (idralazina, minoxidil, diazossido, nitroprussiato di sodio); (7) antiserotoninici (ketanserina). Alcuni di questi farmaci vengono usati esclusivamente in casi particolari e in ambiente ospedaliero. Per la terapia domiciliare i più utilizzati sono i diuretici, i betabloccanti, i calcioantagonisti, gli ACE-inibitori e, ultimamente, gli inibitori dei recettori per l’angiotensina II, che paiono essere molto efficaci e avere scarsi effetti collaterali. Un paziente giovane andrebbe trattato, preferibilmente, con un ACE-inibitore o un betabloccante; un paziente anziano, con ACE-inibitore o calcioantagonista, eventualmente associati a diuretico; in caso di gravidanza, sono indicati alfa-metildopa o idralazina. In definitiva, ogni quadro clinico va valutato singolarmente. È tuttavia sempre opportuno non somministrare: a) betabloccanti in caso di scompenso cardiaco congestizio, bradiaritmie, asma bronchiale, diabete mellito, arteriopatie obliteranti periferiche; b) ACE-inibitori in caso di stenosi bilaterale delle arterie renali; c) idralazina e minoxidil in caso di cardiopatia ischemica; d) nifedipina in caso di tachiaritmie; e) diuretici in pazienti diabetici, ipercolesterolemici o iperuricemici. Sono inoltre da evitare le seguenti associazioni: betabloccante + calcioantagonista tipo verapamil e diltiazem (per non sommare due effetti bradicardizzanti) e ACE-inibitore + diuretico risparmiatore di potassio (per non rischiare di sviluppare iperpotassiemia). Associazioni consigliate sono invece quelle tra diuretico e betabloccante, diuretico e ACE-inibitore, calcioantagonista e ACE-inibitore. Ricordiamo, infine, che la terapia medica dell’ipertensione arteriosa può ridurre del 30% gli accidenti cerebro-vascolari, del 26% la mortalità per cause cardiache e del 20% quella per cause coronariche. Lungi dal potersi ritenere conclusi, gli studi sull’ipertensione arteriosa necessariamente continuano, se è vero che oggi molti studiosi pensano a essa non più solo come a un fattore di rischio per lo sviluppo di altre malattie ma come a una malattia essa stessa.